Fifthy-fifthy

Torno, dopo un anno di vicissitudini personali a cercare di animare la discussione su tematiche “calde” nel settore ristorativo.

Siamo tutti d’accordo che chi cerca lavoro vive un momento di difficoltà, di smarrimento e di debolezza. Ma approfittarsi di questa debolezza, mi sembra meschino.

D’altro canto, anche l’azienda che vuole assumere ha una necessità, un problema da risolvere, come troppo spesso capita e vogliono assumere qualcuno che se ne faccia carico e risolva (in pratica un mago, ma pagato come coniglio che esce dal cilindro).

Quindi mi sembra una situazione di parità e come tale una ricerca di lavoro corretta dovrebbe svolgersi.

Mi chiarisco: se con il mio curriculum tu hai tutte le info che mi riguardano e quelle non scritte me le chiedi in fase di colloquio, quanto meno mi aspetto di conoscere l’offerta relativa alla mansione anche se non in fase di primo contatto, ma non concepisco il fatto che io faccia centinaia di chilometri più volte per incontrarti e la RAL possa essere considerata come il terzo segreto di Fatima, un mistero.

Già, il primo colloquio.

Con la tecnologia disponibile sarebbe auspicabile, in ultimo anche solo da un punto di vista ecologico/ambientale di farlo in videochiamata ed invece devo sottostare alle manie narcisistiche di un recruiter o di un imprenditore che, dopo che hai fatto kilometri in giro per l’Italia, speso i tuoi soldi per farlo (infatti di rimborsi spese manco a parlarne), e messo in pausa i tuoi impegni, non è che non ti ringrazino per lo sforzo, ma non li senti proprio più, neanche per un riscontro/esito sul colloquio.

Altra cosa che noto si stia diffondendo è la moda degli avvisi “over qualified”. E si miei cari recruiter, agenzie, imprenditori, non solo i candidati lo sono. Prima di cercare qualcuno, sgombrate la mente da ogni retro pensiero, e concentratevi su quello che cercate realmente da una nuova, eventuale risorsa. E non cercate un Operation manager, se poi volete assumere un Maître (esperienza personale).

Ancora: non chiamate candidati solo per riempire le vostre preziose agende o per raggiungere un numero di colloqui minimo giornaliero, abbiate rispetto, se ne volete.

Non cercate nuovi candidati se poi scegliete una risorsa interna, fate esattamente il contrario, valorizzate prima le risorse esistenti, poi, ma solo poi, in caso di esito negativo, aprite una selezione. Mi sembra più logico. E più corretto.

Se cercate un Ingegnere, mi aspetto che chi lo esamini sia equamente formato, ma molto spesso si parla di persone che non hanno chiaro cosa chiederti, e quindi le domande sono sempre le stesse. Si inizia con un “mi parli di lei e delle sue esperienze lavorative”. In pratica tutto quello che dovresti sapere su di me se solo avessi letto attentamente il mio cv.

L’ultima cosa su cui ci sarebbe da sbellicarsi se l’argomento non fosse super serio, sono gli slogan che circolano in  cui la persona è sempre al centro di tutto e viene prima di tutto, salvo non farsi più sentire una volta soddisfatti i bisogni di agenda di cui sopra. Per non parlare del codice etico che tutti sbandierano, ma nessuno realmente applica.

Quelli elencati sono tutti casi vissuti personalmente e nessuno mi può contestare il fatto che queste cose avvengano di continuo.

Bisogna quindi sviluppare tecniche di difesa del tipo: il primo colloquio è sempre meglio farlo online, se non vuoi o sai come farlo, probabilmente non fai per me.

Entro il secondo colloquio bisogna esplicitare la RAL, che essendo parte fondamentale dell’offerta di lavoro complessiva, potrebbe non fare per me. Se l’interlocutore si mantiene reticente sul punto, può cercarsi qualcun altro.

Se il colloquio inizia e si sviluppa per stereotipi, mi parli di lei, mi descriva le sue esperienze lavorative pregresse, difficilmente mi risentirai, sto cercando lavoro e non qualcuno con cui chiacchierare perdendo tempo.

Mi chiami con un numero privato, non ti rispondo. E così via. Solo assumendo questo tipo di posizione potremo cercare di cambiare qualcosa, e di essere rispettati anche quando più deboli.

Mi viene in mente una frase di Mao: “Grande è la confusione sotto il cielo”, ma poi continua: “La situazione è quindi eccellente”.

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Revenue per Available Seat: Ottimizza il tuo Ricavo nella Ristorazione

Il Revenue per Available Seat (RevPAR) è un importante indicatore finanziario utilizzato nell’industria della ristorazione per valutare l’efficienza delle entrate generate rispetto alla disponibilità dei posti a sedere. In questo articolo, esploreremo il significato del RevPAR, la sua importanza e come può essere utilizzato per ottimizzare il ricavo nella ristorazione.

Come fare:

   a. Determinare il periodo di riferimento: Scegliere un periodo specifico, come un giorno, una settimana o un mese, per analizzare il RevPAR.

   b. Calcolare le entrate totali: Sommare il ricavo totale generato durante il periodo selezionato.

   c. Calcolare il numero di posti a sedere disponibili: Determinare il numero totale di posti a sedere nel ristorante.

   d. Calcolare l’occupazione media dei posti a sedere: Dividere il numero totale di clienti serviti per il numero di posti a sedere disponibili e moltiplicare per 100 per ottenere l’occupazione in percentuale.

   e. Calcolare il RevPAR: Dividere le entrate totali per il numero di posti a sedere disponibili per ottenere il RevPAR.

Una volta calcolato il RevPAR, è possibile adottare diverse strategie per ottimizzare il ricavo nel ristorante. Queste possono includere l’ottimizzazione dei prezzi, l’implementazione di offerte e promozioni mirate, la gestione delle prenotazioni e l’analisi dei dati per identificare periodi di bassa occupazione e pianificare iniziative per aumentare la domanda.

Esempio pratico:

La formula per calcolare il Revenue per Available Seat (RevPAR) è la seguente:

RevPAR = Entrate Totali / Numero di Posti a Sedere Disponibili

Per calcolare il RevPAR, come detto, è necessario conoscere le entrate totali generate in un determinato periodo di tempo e il numero di posti a sedere disponibili nel ristorante durante lo stesso periodo.

Ad esempio, se il ristorante ha generato entrate totali di 10.000 euro in un mese e ha 100 posti a sedere disponibili, il calcolo del RevPAR sarebbe:

RevPAR = 10.000 euro / 100 posti a sedere = 100 euro per posto a sedere

In questo caso, il RevPAR sarebbe di 100 euro per ogni posto a sedere disponibile nel ristorante durante il mese considerato. Questo indica che, in media, ogni posto a sedere ha contribuito con 100 euro alle entrate totali del ristorante durante quel periodo. 

Conclusione:
Il RevPAR è uno strumento potente per valutare l’efficienza delle entrate e ottimizzare il ricavo nella ristorazione. Misurare e monitorare attentamente il RevPAR consente ai ristoratori di prendere decisioni informate sulla gestione dei prezzi, l’occupazione dei posti a sedere e le strategie di marketing. Ricordate che il successo finanziario dipende non solo dalle entrate totali, ma anche dall’efficienza nell’utilizzo dei posti a sedere disponibili. 

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La cucina regionale italiana come leva di marketing e le sue implicazioni sociali

Da un po’ di tempo, i Carabinieri con il loro nucleo NAS. stanno intensificando i controlli su molti di quegli ingredienti DOP e IGP, che da tempo spuntano nelle proposte dei menu dello stivale. Se scrivete che il pistacchio è di Bronte, dovete tenerne la tracciabilità così da poter dimostrarne la effettiva provenienza. Così in tanti si scrive mozzarella di bufala, poi magari non è di bufala, e forse non è neanche mozzarella, ma formaggio a pasta filante.

Comunque trovo questa iniziativa meritoria, e vorrei che si estendesse ai supermercati (dove è tutto Scottona o Marchigiana e non si importa più dalla Polonia) ed anche alle vendite gourmet online.

Dovremmo tutti esserne contenti perché la cucina regionale italiana è quella che rende il nostro patrimonio eno-gastronomico unico al mondo.

La cucina italiana è rinomata in tutto il mondo per la sua varietà e qualità. Ogni regione italiana ha una cucina unica e caratteristica, che rappresenta un tesoro culinario prezioso. In questo articolo, esploreremo come la cucina regionale italiana può essere utilizzata come leva di marketing ed accenneremo ad alcune delle sue implicazioni sociali.

1. Valorizzazione dell’identità regionale:
La cucina regionale italiana rappresenta un’autentica espressione dell’identità e della cultura di ogni regione. Promuovere e valorizzare la cucina regionale come parte integrante del patrimonio culturale di un luogo può contribuire a preservare le tradizioni locali e creare un senso di appartenenza per i residenti.

2. Attrazione turistica:
La cucina regionale italiana è una delle principali attrazioni per i turisti che visitano il paese. Ogni regione offre piatti unici e specialità locali che attirano gli amanti del cibo da tutto il mondo. Utilizzare la cucina regionale come strumento di marketing turistico può aumentare l’afflusso di visitatori e promuovere lo sviluppo economico della regione.

3. Promozione dell’agricoltura locale:
La cucina regionale italiana si basa su ingredienti freschi e di alta qualità, spesso provenienti dall’agricoltura locale. Promuovere la cucina regionale significa promuovere anche l’agricoltura locale e sostenere i produttori locali. Questo può avere un impatto positivo sull’economia rurale e contribuire a preservare la biodiversità agricola.

4. Sostenibilità e stagionalità:
La cucina regionale italiana si basa sulla stagionalità degli ingredienti, rispettando i cicli naturali e riducendo l’impatto ambientale. Promuovere una cucina regionale sostenibile può sensibilizzare le persone sull’importanza di scegliere ingredienti locali e di stagione, riducendo così l’uso di prodotti trasportati a lunga distanza e l’emissione di gas serra.

5. Creazione di identità culinarie locali:
Ogni regione italiana ha una serie di piatti e specialità che la contraddistinguono. Promuovere la cucina regionale può aiutare a creare e rafforzare un’identità culinaria locale. Questo può portare a una maggiore consapevolezza dei prodotti tipici e delle tradizioni culinarie, favorendo la loro preservazione e trasmissione alle generazioni future.

6. Creazione di reti di collaborazione:
La promozione della cucina regionale italiana può favorire la creazione di reti di collaborazione tra ristoratori, produttori, agricoltori e altre figure del settore alimentare. Queste collaborazioni possono stimolare lo scambio di conoscenze, la valorizzazione dei prodotti locali e la creazione di nuove opportunità imprenditoriali.

7. Miglioramento della qualità della vita:
La cucina regionale italiana è spesso associata a uno stile di vita sano e all’inclusione di ingredienti freschi e nutrienti. Promuovere la cucina regionale può incoraggiare abitudini alimentari più salutari e migliorare la qualità della vita delle persone, contrastando problemi legati all’alimentazione come l’obesità e le malattie croniche.

8. Preservazione del patrimonio culinario:
La cucina regionale italiana è un patrimonio culinario che va preservato. Promuovere la cucina regionale significa contribuire alla salvaguardia delle ricette tradizionali, delle tecniche di preparazione e dei sapori autentici. Questo è fondamentale per mantenere viva la cultura culinaria italiana e passarla alle generazioni future.

9. Inclusione e diversità:
La cucina regionale italiana è un mix di influenze culturali e storiche, che riflette la diversità del paese. Promuovere la cucina regionale può favorire l’inclusione e la valorizzazione delle diverse tradizioni culinarie presenti in Italia, dando voce a comunità e popolazioni che altrimenti potrebbero essere trascurate.

10. Promozione dell’artigianato e delle tradizioni:
La cucina regionale italiana è spesso legata all’artigianato locale e alle tradizioni tramandate di generazione in generazione. Promuovere la cucina regionale significa promuovere anche l’artigianato e le tradizioni locali, creando un circolo virtuoso di supporto reciproco tra i settori.

Conclusioni:
La cucina regionale italiana rappresenta una leva di marketing potente che può promuovere l’identità, l’economia locale e la sostenibilità. Allo stesso tempo, ha implicazioni sociali importanti, come la preservazione delle tradizioni, l’inclusione e il miglioramento della qualità della vita. Sfruttare la ricchezza della cucina regionale italiana può portare a un futuro più sostenibile, integrato e culturalmente ricco per l’Italia. 

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Tendenze nella ristorazione e nel cibo del 2022

In generale, essendo la ristorazione una delle attività maggiormente colpita dalla pandemia (lockdown, posti contingentati, aperture a singhiozzo) ma anche dall’aumento delle materie prime e delle filiere distributive, dell’energia e dalla difficoltà di trovare il personale (che nel frattempo è stato assorbito da altri mercati), potremmo vedere menu ridotti, maggiormente focalizzati e meglio studiati, cucine robottizzate, fenomeno peraltro già in atto nelle pizzeria della vicina Francia, ed un maggior uso dell’outdoor e delle prenotazioni allo scopo di impiegare al meglio il personale.

Nell’articolo dell’anno scorso “IL TREND DEL DESIDERIO” avevamo analizzato le tendenze che secondo noi erano da venire. E qualcosa lo abbiamo indovinato, quindi ci riproviamo! Cercando, come sempre, non di scrivere un contributo trito e ritrito, come se ne vedono molti, ma di analizzare le nuove tendenze che possono interessare il mercato Italiano della ristorazione/ospitalità sotto vari aspetti e da diversi punti di vista.

Vediamo quindi cosa ci aspetta in questo 2022 ancora caratterizzato dal perdurare della pandemia e da una insicurezza (anche politica) diffusa.

Continuano le scelte improntate alla sostenibilità ed al benessere. In questo senso abbiamo visto un’esplosione delle bevande cosiddette funzionali o di acque arricchite con ingredienti salutari o bevande prive di zuccheri ed in questo campo la crescita è ancora pressochè inesplorata, basti pensare al segmento delle soda. In questa ottica leggerei anche la veloce espansione di catene legate a questi concetti (leggi Poke o simili) che hanno visto un 2021 in netta controtendenza o, molto più banalmente il moltiplicarsi delle offerte di “Insalatone” a tutti i livelli.

Parimenti nelle cucine dei ristoranti i menu si modificano e, oltre ad usare pesci o tagli di carne diversi e più a buon mercato, poi nobilitati da tecniche di cottura o ingredienti innovativi, danno molta più importanza agli scarti ed al riciclo. Che ovviamente non significa riusare quanto lasciato degli altri commensali, ma porre la maggior attenzione possibile affinchè sempre meno acquisti finiscano nel bidone generando costi puri.

Sempre agganciato a questa idea (etica e sostenibilità) è da leggere l’aumento del consumo della carne “sintetica” a base vegetale. Anche se non proprio una novità anche questa è stata una tendenza aumentata in modo esponenziale l’anno scorso e che proseguirà per tutto il 2022, si pensi che negli USA la catena Mc Donald’s ha introdotto il Mc Plant, seppur ancora in modo sperimentale, con risultati più che soddisfacenti. Andando oltre, sempre dall’altra parte dell’oceano, ci sono aziende molto interessanti che addirittura “coltivano” la carne in laboratorio da cellule animali . Questa tecnica che lascia intatti i piaceri della carne in senso letterario, nel contempo elimina la crudelta sugli animali, la possibilità dello scambio di patogeni, riduce le emissioni nocive di Co2 e l’uso di energia e acqua.

Tra gli ingredienti, invece, che possono caratterizzare le tendenze del 2022 e, visto che andiamo incontro ad un aumento vertiginoso delle forniture purtroppo legati a quelli dell’energia si cercano altre fonti. E aumentano le produzioni a base di cannabis o la valorizzazione delle alghe.La prima già da qualche anno presenti nella dieta Italica, basti pensare che la cannabis è oramai sdoganata ed inserita in preparazioni di chef stellati. Per quanto riguarda le alghe esse sono consumate già in molte preparazioni asiatiche, ma sono anche presenti stabilmente nella GDO infatti, non è difficile vedere nei banchi pescheria dei supermercati, già da tempo, gli asparagi di mare o Salicornia. Ma si consideri anche che le zeppole o frittelle alle alghe sono un piatto anche tradizionale in alcune parti di Italia, così come lo sono in Scandinavia. Ricche di ferro, calcio e vitamina K, sono salutari e sostenibili e quindi una fonte perfetta di approvvigionamento.

Anche per quanto riguarda il settore delivery l’evoluzione andrà incontro ai vari mercati di nicchia, sviluppando piattaforme sempre più “friendly”. Ovviamente questo segmento impone, per essere interessante economicamente, una analisi approfondita dell’offerta e dei prezzi e, dal momento che chi sia affida a ditte specializzate per le consegne sa quanto queste erodano il profitto, i ristoratori spingeranno sempre di più sul take away. L’altra faccia della medaglia da considerare è che, se da un lato è meglio l’asporto che le consegne per quanto su esposto, dall’altro impegnare il personale per preparare il take away, lo distrae dalle preparazioni per chi mangia nelle strutture e quindi è bene analizzare approfonditamente questa interconnessione.

Una altra tendenza degna di nota sarà quella dell’accrescersi del consumo di piatti etnici. La voglia di sperimentazione è tanta, le piattaforme social aumentano la curiosità nei consumatori e quindi ci sarà un fiorire di piatti con inredienti “esotici”. Anche se per per molti il termine “etnico” porta con sè connotazioni negative e riporta al colonialismo e che quindi può essere sostituito da termini più generici come “asiatico” o “Sud-americano” e così via. Anche quì però attenzione: se non avete nel vostro staff personale che possa darvi la garanzia della buona riuscita del piatto, non cimentatevi in un riso al cocco alla jamaicana o un tom yan goong thai, rischiate di servire il famoso “mappazzone” e di perdere la vostra credibilità.

In ultimo il mio plauso ed il mio incondizionato rispetto va a tutti quei ristoratori, a tutto quel personale di servizio e di produzione che, tra mille difficoltà private e lavorative, riesce ancora a svolgere le proprie mansioni con un sorriso, che per un attimo ti porta indietro ad una normalità perduta, che con una attenzione che non ti aspetti pur avendo la mente annebbiata riesce a leggere la tua ed ad anticipare le tue richieste. A tutti quelli che nonostante siano all’impiedi per lunghe ore, sopportino capi e capetti e colleghi ignoranti riescono a farti provare un’esperienza o un’emozione. Mai visto delle persone così resilienti, forti, empatiche, competenti, accomodanti e così poco valorizzate come nella ristorazione (che fa la gara con l’agricoltura)

In ogni caso il consiglio rimane lo stesso: se non sai come fare affidati a dei professionisti. www.gestioneecontrollo.com

Il trend del desiderio

Ho pubblicato alcuni suggerimenti, consigli e soluzioni pratiche per provare a mitigare i danni nelle attività ristorative in periodo Covid-19. Ho ricevuto molti commenti che mi attribuivano saccenza ed arroganza nel trattare queste tematiche, che io non mi riconosco. Non ho mai preteso di conoscere la verità ma ho provato, in base alle mie esperienze, al confronto con colleghi, a frequentazioni più o meno sporadiche a forum, webinar e siti specializzati di proporre soluzioni anche sperimentate in prima persona con successo.

Quanto suggerito nei precedenti contributi va comunque massimizzato anche attraverso l’introduzione di piatti ed ingredienti che possano seguire le tendenze odierne. Non solo per essere aggiornati nelle proposte, ma anche per incrementare le vendite. La cucina tradizionale ha vissuto momenti di buio in favore delle cucine etniche (la prima fu l’invasione cinese) della vegetariana/vegana e delle altre tendenze diffuse, ma ultimamente si nota un aumento nel consumo del comfort food (il cibo così detto consolatorio), complice l’epidemia mondiale ed il correlato stato di ansia. E quindi vai di lasagna, costine, salsicce con patate, pizza. Ma quali sono le tendenze previste nei consumi degli italiani per questo anno, anche alla luce di alcune considerazioni che vedono la piena ripresa solo nel 2024?

Secondo una ricerca realizzata dalla società di consulenza alimentare e ristorativa Baum & Witeman (https://www.baumwhiteman.com/trend-reports), non si tratta di prevedere quale piatto o ingrediente farà tendenza, come in passato, ma di analizzare i trend alla luce dei nuovi comportamenti dettati dal contingente periodo.

Partiamo dalla considerazione che mangiare fuori sarà diverso nel 2021, ed anche oltre.

Abbiamo già sottolineato l’importanza del rito nel consumo del pasto ed abbiamo toccato alcune implicazioni sociologiche. Ma per quest’anno e nell’immediato futuro ci potremo dimenticare di grandi banchetti o party, ma anche di menu cartacei e tovaglie. Di contro ci aspettiamo, barriere, mascherine, menu ridotti e meno servizio. Quindi una delle sfide più grandi che attende gli operatori della ristorazione (oltre a quella di sopravvivere) sarà quella di saper reinventare un ambiente caldo ed accogliente, per una esperienza di socialità, che è e rimane uno dei motivi principali per cui mangiamo fuori.

Ci saranno meno locali ed una offerta differente

Inevitabilmente, chi non ha saputo adeguarsi alle nuove richieste del mercato e non ha agito per tempo, ora si lecca le ferite, anche considerando che le aperture a singhiozzo, per aree, contro i provvedimenti governativi ecc non possono sopperire ad un’altra stagione invernale disastrosa. In queste condizioni, tra il 2020 ed il 2021, un numero enorme di attività ristorative ha chiuso.

Mangiare in modo sostenibile

Sembra che i consumi si orientino su prodotti più di “contenuto” che di “forma”. Quindi il richiamo al comfort food di cui sopra adottato anche da grandi chef. Alcuni fanno condimenti e conserve dei propri prodotti e li commercializzano on e off line. Altri danno molta importanza alla cucina senza scarti o che comunque li usi e li ricicli.

Fuori, grazie

Sia per i prolungati periodi che abbiamo vissuto al chiuso ultimamente, vuoi perchè è più facile mantenere il distanziamento, vuoi perchè percepito come più sano, i clienti hanno riscoperto il piacere di mangiare all’aperto. Questo trend si manterrà e c’è chi si organizza con le bolle, il gazebo, il porticato.

La vaccinazione di massa e lo sviluppo tra la popolazione degli anticorpi sta lentamente portando alle riaperture ristorative. Dal mio puno di vista questo allentamento calcolato delle restrizioni non può essere considerato comunque un ritorno al periodo pre-pandemico, ma va gestito con intelligenza e responsabilità dagli operatori del settore, se non altro per non essere considerati i nuovi “untori” e costretti a nuove limitazioni. Per questo le misure anti propagazione del Covid delle attività devono continuare ad essere implementate e rispettate da parte di ristoratori e clienti.

Non molliamo, non abbassiamo la guardia e non perdiamo il trend.

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Huston, abbiamo una soluzione

Appunto sia ben chiaro da subito: UNA soluzione e non LA soluzione.

Come è possibile, in questi tempi di incertezza trasformare la propria impresa in una attività di successo e redditizia?

Avevo già trattato precedentemente la struttura base di una attività ristorativa che tenesse conto delle odierne contingenze. Lo definii un ibrido che potesse tener conto delle mutate esigenze alla luce delle limitazioni dovute al Covid-19, che fungesse da gastronomia per il consumo (limitato) in loco, per quello da asporto e come assemblamento e packaging per le consegne. In questo modo vengono ridiscussi gli spazi e la loro funzionalità alle nuove esigenze del servizio, ma anche le mansioni ed i compiti. Così i camerieri possono fare le consegne, i cuochi possono servire al banco e così via. Ovviamente il personale va supportato in questa fase da un training mirato in base alle nuove competenze da acquisire.

L’imprenditore ideale ha da tempo, sin da quando i locali pubblici sono stati chiusi, preso alcune fondamentali misure per cercare di rimanere sul mercato:

Sicuramente ha approfondito le tematiche connesse all’asporto e alle consegne focalizzandosi su qualità e velocità del servizio.

Ha effettuato della formazione al proprio personale per dotarli degli strumenti giusti per aiutarlo ad affrontare la crisi. Adeguamento delle mansioni e attenzione alle migliori pratiche relative ad asporto e consegne.

Ha negoziato le tariffe migliori con le compagnie specializzate nelle consegne, se ha intenzione di avvalersene.

Ha adattato la propria offerta in termini di quantità dei menu e della relativa composizione.

Ha potenziato la propria capacità di ricevere ordinativi on line, ma agevolando anche gli acquisti di persona riadattando la propria struttura (punti di consegna per asporto, segnaletica, pagamenti contactless ecc).

Anche se il discorso prezzi è sempre un argomento sensibile, ha rivisto la propria offerta economica considerando l’impatto della normativa anti Covid-19 e dei costi aggiuntivi da sostenere.

Ha intensificato la propria attività on line (social media, piattaforme specializzate).

Ha fatto lo giusto studio sul materiale del confezionamento e del “tray set-up” che sarà sicuramente riconoscibile e brandizzato.

Pone una attenzione particolare ai numeri ed al controllo di gestione, avendo così la possibilità di adottare strategie flessibili ed adattabili.

Ma quali gli scenari che si prospettano al’orizzonte? Qualcuno parla di un format che al concetto di delivery possa coniugare il servizio, quindi un vero e proprio home delivery retaurant con tanto di mise en place e cottura o rifinitura dei piatti. Affascinante, ma complesso e costoso, indirizzato ad una clientela facoltosa dei grandi centri urbani. Inoltre secondo uno studio della società di consulenza strategica Kearney riportato dall’ ansa (www.ansa.it) aumenteranno la richiesta di cibo locale insieme alle tecnologie digitali per evitare i contatti e l’incidenza economica della sicurezza sanitaria.

Dobbiamo sicuramente riprogettare il sistema alimentare nel suo insieme rendendolo molto più regionale ed in grado di assorbire questi eventi e quelli che sicuramente verranno.

Ovviamente non so in quanti abbiano proceduto ad analizzare scenari, opportunità e sfide, stiamo parlando di una imprenditoria ideale sempre più rara. Non di quella che alla prima difficoltà lascia il proprio personale a casa, ma che lo riqualifica alle nuove esigenze. Che non taglia sulla qualità della proposta, ma che la modifica adattandola e tenendola costante. Non di quella che ha la soluzione sempre in tasca e preferisce far da sè pur avendo sempre applicato tattica e strategie completamente diverse e non ha l’apertura mentale di rivolgersi a dei professionisti.

Decisamente non di quegli imprenditori che sanno solo dire: “Huston, abbiamo un problema….”

BUONE FESTE A TUTTI!

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La qualità questa (s)conosciuta


Mi auguro che ciascuno di voi abbia avuto la possibilità di ritagliarsi del tempo per potersi riposare la passata estate e prepararsi al meglio per questo inverno pieno di incognite e di incertezze, ma anche preparatorio ad una stagione, la prossima, che speriamo essere di rilancio. La mia, di vacanza, mi ha dato lo spunto per questo contributo.

Sento molto parlare di qualità nella ristorazione. Sull’onda lunga degli chef pluri-stellati e delle trasmissioni culinarie italiche, tutti propongono, a detta loro, piatti di qualità, vogliono offrirla e se ne riempiono la bocca senza conoscerne veramente il significato. Chiunque abbia un minimo di conoscenza in merito sa che lo schema con il quale si ricerca la qualità si articola in quattro fasi: qualità attesa, programmata, realizzata e percepita. Quindi è una ricerca che parte dal cliente e si conclude con il cliente passando attraverso l’organizzazione (ristorante) che la programma e la realizza.

Ovviamente la qualità nella ristorazione coincide con l’esperienza che si vive durante tutto il tempo in cui si interagisce con l’offerta ristorativa: dal primo contatto, online o di persona, fino al pagamento del conto ed al post con la recensione del locale. In tutti i tipi di ristorazione dalla classica alla collettiva (moderna), alla commerciale. E non è certo, anzi non solo, quello che si mangia. Ma qui si parla di ingredienti, ricette, piatti.

Diciamolo subito, la qualità costa. In termini di materie prime e di realizzazione, infatti un cattivo chef ti può distruggere l’ingrediente più prezioso ed un ottimo chef può nobilitare un elemento povero con la sua maestria, ma la percezione della sua qualità sarà comunque limitata (uno spaghetto al pomodoro, benché preparato da C. Cracco, rimane pur sempre uno spaghetto al pomodoro). Quindi programmare e realizzare una offerta di qualità per un ristoratore parte dallo studio del menu con prodotti che rispondono ai requisiti attesi (qualità, reperibilità, prezzo ecc.) e procede con gli acquisti delle materie prime, propria conservazione e trattamento.

E qui sorge il primo problema per gli imprenditori nostrani (non tutti ma una buona maggioranza), il costo. Tutti vogliono fare le “nozze con i fichi secchi”. E’ così difficile da capire che il prodotto di nicchia, di produzione limitata o con ingredienti particolari debba costare di più del prodotto generalista? E che i risultati siano completamente diversi in termini qualitativi?

Aggiungendo altri argomenti alla discussione possiamo affermare che il prodotto stagionale ha, di partenza, una qualità maggiore, in quanto segue la vita naturale del prodotto e non è cresciuto in serra o in coltivazioni idroponiche , bensì ha assorbito nei tempi giusti i nutrienti dalla terra in cui è cresciuto. Perché dobbiamo mangiare pomodori tutto l’anno e le fragole d’inverno? Questa schizofrenia comportamentale ha fatto si che nazioni (Nord Europa) in cui si direbbero impossibili alcune coltivazioni siano diventate leader di mercato. Coltivazioni che non vedono il sole ed in alcuni casi la terra, che seguono logiche di massimizzazione, di produzione per mq2 e non certo i cicli ed i normali tempi naturali.

Altro elemento che condiziona la qualità è senza dubbio la vita che questo ingrediente/prodotto ha all’interno della nostra struttura, il modo in cui lo trattiamo. Ordinare, ricevere, stoccare, produrre e servire fanno parte di processi interni che influenzano la qualità finale del prodotto. Ovviamente questo monitoraggio e controllo necessita di risorse e quindi rappresenta dei costi, anche questi indigesti ed incompresi da parte di molti imprenditori.

Si faccia la qualità, ma quella vera. Viviamo nel Belpaese e possiamo farlo, di certo non ci mancano ingredienti e condimenti. La nostra biodiversità è la nostra forza: riscopriamo le tradizioni e le cucine regionali e dosiamo le esplorazioni gastronomiche, o meglio indirizziamole maggiormente al nostro territorio di appartenenza. Quanti sanno che in Italia si produce del whisky pluri-premiato? Quanti che produciamo caviale di alta qualità? Sapete che produciamo parmigiano e bresaola con disciplinari approvati Halal per la vendita nei paesi di religione mussulmana? Abbiamo il prosciutto di Parma o il San Daniele, ma produzioni di nicchia dal Veneto, alla Toscana, alla Sicilia.

L’italia è piena di prodotti e produzioni di eccellenza e qualità, quella vera. Riscopriamoli e manteniamoli vivi a scapito del salmone scozzese o del pak choi e della curcuma, contaminazioni certamente importanti, ma che devono miscelarsi ad una solida base locale. Inoltre abbiamo le professionalità, Chef conosciuti in tutto il mondo, professionisti che sanno ospitare, che sono i custodi di quella tradizione di servizio che va lentamente scomparendo e che ci hanno reso famosi nel mondo; che sanno di merceologia e che sanno gestire brigate complesse, ma ai quali troppo spesso vengono preferiti “Giovani neolaureati con esperienza e 3 lingue per 1.200 €/mese” che non possono e non devono avere la capacità di critica, la visione necessaria e la giusta conoscenza per il controllo e la gestione di determinate attività, specialmente complesse. Questa non è qualità, ma pressappochismo tutto italico.

Per quanto riguarda gli ingredienti, quando tutto questo diventa autoreferenziale l’imprenditore pensa di essere il più bravo e, con la tecnica in voga negli anni ’80 secondo la quale i prodotti da presentare al buffet non possano superare i 5 €/K, ti spaccia pesci improbabili verdesca, smeriglio, spinarolo, palombo, gattuccio, mako come di qualità o sostitutivi nelle ricette tipiche, nei carpacci, ma che quasi sempre, secondo ilfattoalimentare.it, nascondono carne di squalo, posizionando l’Italia al quarto posto nel mondo per consumo di questo alimento e leader in Europa. Oppure nelle selezioni di formaggi dove oramai si fatica a trovare prodotti italiani in un tripudio di emmental, fontina, gouda. Il parmigiano lascia la scena a grattugiati misti con carta d’identità dubbia e l’olio E.V.O. si ritira contro l’avanzata degli oli europei. Questa non è qualità, ma il suo contrario, la sua mortificazione.

Per questo è importante non rimanere nel proprio orticello, ma confrontarsi: non chiudersi ma accettare le critiche, avere il coraggio di conoscere e di esplorare. Confrontarsi con professionisti è sempre il consiglio migliore per avere un punto di visto diverso, alternativo, nuovo.

Certo che il professionista costa, ma anche la qualità. www.gestioneecontrollo.com

Un atto veramente rivoluzionario

In una società capitalistica globalizzata, non è questo il luogo dove esprimere un giudizio ma unicamente una constatazione, nella quale si preferisce produrre un bene in Cina in India o nel sud est asiatico anziché nell’est Europa, per poi ritrasportarlo indietro sui mercati domestici per motivi economici, si evidenzia la insostenibilità delle catene produttive-distributive, molto poco efficienti ed altamente inquinanti. Infatti le merci per la rapidità imposta dal deperimento dei prodotti alimentari usano vettori altamente inquinanti: navi, aerei e trasporto su gomma. Le piattaforme distributive sono energivore a causa delle enormi celle frigo e per la logistica impiegata. A questo scenario si aggiunga la altissima percentuale di prodotto finito che sprechiamo per scadenza, difetti estetici o errori nella preparazione o negli acquisti. Sono numeri impressionanti che impongono un cambio radicale o rivoluzionario.

Un atto rivoluzionario, per definizione, è quello che provoca un cambiamento radicale, una trasformazione in un qualsiasi campo dell’agire umano. Ovviamente esso diventa difficilmente attuabile senza la giusta consapevolezza.

Ma cosa può essere di più dirompente, più innovativo, cioè più rivoluzionario, al giorno d’oggi, che l’atto più comune e più apparentemente banale del nostro quotidiano: scegliere come fare la spesa? Decidere cosa mettere in tavola? Ci rendiamo conto delle emissioni di Co2 che potremmo risparmiare se, invece del limone centroamericano o nordafricano comodamente acquistato al supermercato a costi ridicoli, preferiamo con costanza attraverso tutta la nostra vita limoni autoctoni, che remunerano le attività locali? Moltiplicate il concetto per tutti gli ingredienti che consumiamo nell’arco della nostra esistenza ed avremo tonnellate e tonnellate di anidride carbonica in meno nella nostra atmosfera. Chi ha letto qualche altro mio contributo, saprà che alla definizione di cibo a KM 0, ho sempre preferito quella di filiera corta o sostenibile. Ma voglio anche accennare al discorso salutistico che sicuramente non è da meno, ma anche discorrere con voi del pieno recupero della nostra vera cucina regionale contadina (che rappresenta una piccola influenza, relativamente recente, nella cucina italiana). Ingredienti poveri, regionali e nutrizionali in modo giusto rappresentano un contributo che tutti possiamo dare. Temi quali il Bio, la filiera corta, la stagionalità dei prodotti, il rispetto delle rotazioni nelle colture, il recupero delle eccedenze, il “riciclo” sono aspetti che interessano tutti e che possono dare un contributo importante al pianeta. E non facciamoci prendere dalle multinazionali che cercano di intercettare queste nuove motivazioni etiche con prodotti mascherati e markettizzati, ma che non hanno nulla a che fare con quanto stiamo dibattendo. Se devo bere un caffè, un te, o una bibita gassata meglio un chinotto (o spuma) che una coca cola. Se voglio comprare una acqua aromatizzata posso averla della Danone o di produzione nazionale con un impatto profondamente diverso sul pianeta quale frutto della mia scelta.

Quindi scelte consapevoli all’acquisto (leggete di più le informazioni dovute per legge sulle etichette), in quantità consone ad evitare sprechi, preferire prodotti locali, bio o non manipolati massicciamente e che seguano la stagionalità può diventare, nella consapevolezza, un atto estremamente rivoluzionario a vantaggio individuale e collettivo. Pensateci la prossima volta che andate al supermercato o in un fast food.

Pensateci perchè la rivoluzione è alle porte e inizia da noi.

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La fine di un …..Rito

Il cibo, il pasto come eloquente segno di civiltà, dello stare insieme per uno scopo che non è semplicemente ‘il mangiare’ ma il mangiare secondo una modalità formale, in alcuni casi rituale, scandito da un ritmo con un inizio, con una fine e con delle regole che spesso definiamo di buona educazione o convenzioni. Tutti i sensi coinvolti, dal profumo, all’odorato, al gusto, la sua preparazione, la messa in tavola, il suo essere consumato, fanno del cibo uno star insieme celebrativo. Il cibo non è solo ( o di certo non è più almeno per la maggioranza di noi occidentali) un mezzo di sola sopravvivenza. Il cibo di una nazione è espressione della sua cultura che riunisce in sé pratiche economiche, simboliche e sociali con cui interagisce e si trasforma. Cucina e identità nazionale sono intrinseche e collegate nella società, nel patrimonio di un paese e di un popolo, diremo nel DNA. Che queste derivino da storia o da mito costruito “ad hoc”, poco importa.

L’elemento che più attira l’interesse verso il cibo e l’alimentazione è senza dubbio l’aspetto rituale.

Si può definire il rito come un insieme di atti e pratiche, il cui ripetersi va a formare e stratificare nel tempo i modelli culturali di una data società. Esso svolge nel medesimo tempo una funzione di trasmissione dei valori e delle consuetudini, di istituzionalizzazione dei ruoli, di riconoscimento dell’identità e di coesione sociale.

Il rituale principale connesso al cibo – degno di maggiore considerazione – è quello della sua assunzione nella forma del consumo in comunità. La “commensalità”, essenziale al consumo del cibo, fonda il senso di appartenenza ad una determinata comunità o gruppo sociale: nella sua forma ritualizzata crea all’interno del gruppo ordine, distanze, gerarchie, ruoli e divisioni.

Certamente oggi le abitudini sono molto cambiate. Si assiste a quel fenomeno che gli antropologi chiamano “deritualizzazione del cibo”, poiché il pasto e le sue valenze sacre e simboliche si stanno gradualmente destrutturando e disperdendo a favore di una sempre maggiore assenza di regole, di luoghi, di tempi e spazi comuni dedicati alla consumazione del cibo. È il fenomeno diffuso del fast food, del mangiare in piedi, da soli, in auto, davanti ad uno schermo senza accorgersene.

Il consumo alimentare nella società moderna non si limita più ad una pratica legata a logiche della convivenza, abitudine, e della salute, ma sfocia in un più edonistico rituale estetico che inquadra il cibo in una dimensione di emozioni e passioni cariche di valenze simboliche ed ereditarie.

Tutto questo ci è mancato per tutto il periodo di quarantena e ci mancherà probabilmente per i prossimi mesi; infatti, una serie di prescrizioni da adottare a causa delle tematiche coronavirus, non aiuteranno lo svolgimento del sacro rito di cui trattiamo. Distanziamento sociale, barriere in plexiglass, camerieri in mascherina ecc. minano le basi per un ideale suo svolgimento che si basa sull’unione, la condivisione, l’estetica. Il rito si trasforma quindi, più ordini da casa magari, da consumare con amici e parenti, senza i momenti del reperimento degli ingredienti e della preparazione (ridotta al minimo), per non parlare del recupero di una dimensione casalinga a sfavore di luoghi identificati per il consumo di cibo. Un po’ quello che succede nei food reality dove dal linguaggio del cibo e dalle sue liturgie mancano alcune componenti essenziali.

O siamo tutti dentro una Matrix enogastronomica? http://www.gestioneecontrollo.com

***Voglio ringraziare il Prof. Spiandorello dell’ IPS C. Musatti di  Dolo che con le sue lezioni ha certamente contribuito alla stesura di questo contributo.***

La cucina è morta?

Le dark o ghost o virtual kitchen o cook room sono un fenomeno abbastanza recente che ha interessato le grandi città e, dopo un successo relativo di qualche anno fa a Milano, ha patito un lento ridimensionamento fino ad oggi. Sono cucine che fanno solo produzione dedicata alle consegne. all’asporto. ad un catering specifico ecc., non hanno sala né personale di servizio o cassa, o servizi igienici, tovagliato, stoviglie, insegne su strada,  ecc., e permettono un abbattimento dei costi di gestione. Offrono la possibilità ai ristoratori di farsi conoscere in altri luoghi distanti da quello fisico, questo si conosciuto, e di poter vendere i propri piatti. Il concept pare adattarsi a pennello ai tempi odierni dominati dall’esplosione del food delivery, sia per le problematiche legate al coronavirus sia per un lento e graduale mutamento degli usi nelle nuove generazioni ed alla velocità sempre crescente del vivere moderno.

Sicuramente le abitudini sono molto cambiate già rispetto a 50 anni fa, ed è in atto una lenta ma inesorabile de-ritualizzazione del cibo perché la simbologia e la sua sacralità rituale scompaiono a favore di assenza di luoghi, regole e spazi comuni dedicati al consumo di cibo. Si mangia nei fast food, di corsa, in piedi, da soli, in auto. Ma si produce anche nelle ghost kitchen.

Ovviamente non è tutto oro quello che luccica. Anche in questo ambito ci sono aziende che hanno successo e continuano a crescere ed a progettare espansione (Foorban), ed altre che naturalmente chiudono (Rose e Mary). Se infatti è vero che i costi sono molto ridotti e l’efficienza è una delle caratteristiche fondamentali in questa attività, è anche vero che ci sono una serie di costi che se non controllati e gestiti possono rappresentare una criticità.

Il primo è sicuramente economico. Le piattaforme di consegna a domicilio per dare visibilità sulle proprie app chiedono commissioni tra il 20 ed il 30%, quindi un terzo delle vendite manca dagli incassi. Queste piattaforme di logistica e distributive diventano a pieno titolo dei partner in questa attività e dovendo pianificare nel breve-medio periodo è giusto considerare questi costi.

Poi c’è sicuramente un problema qualitativo. Non avendo la possibilità di un controllo pre-consegna e non gestendo la consegna stessa, l’ultimo miglio, non si ha certezza circa gli standard di produzione e di consegna di quanto ordinato dal cliente, ed è possibile che il ristoratore non conosca mai eventuali problematiche segnalate, ma che questi si fermino alla piattaforma.

C’è anche il problema del legame molto effimero tra cliente e ristoratore, senza rapporto “vis a vis” è più facile cambiare locale che dare una occhiata al menu o presentare una lamentela.

Poi c’è da gestire i picchi nelle ore critiche che, se male organizzati rallentano le consegne, abbassando la qualità del cibo e l’esperienza del cliente.

Un problema può essere rappresentato dalla gestione della sicurezza alimentare.

Infine, c’è da considerare il fatto che senza un posto fisico è sempre più difficile essere riconosciuti e crearsi una chiara identità, così come è impossibile ricreare i suoni, gli odori, i colori e tutte le sensazioni legate al consumo di un pasto al ristorante.

Il ristoratore, da canto suo, ha la possibilità di difendersi investendo molto sulla riconoscibilità del suo marchio mentre è presente nell’universo delle app, anche in previsione di uno scioglimento della partnership.

In ogni caso l’interesse c’è per una attività che, facendo solo cucina, riduce i canoni di locazione rispetto ad un ristorante tradizionale con sala. Abbassa il costo del personale eliminando quello dedicato alla cassa, al servizio e parzialmente al lavaggio. Quindi bassi costi di esercizio equivalgono ad un minor rischio di impresa anche considerando il carattere molto flessibile e modificabile della offerta. E l’interesse è provato anche dal fatto che Glovo, leader della logistica distributiva in Italia ha investito a Milano nella realizzazione di una cook room, la sesta a livello mondiale, capace di ospitare fino a sei diversi marchi che utilizzano le cucine in outsourcing per le consegne, anche per non interferire con le operazioni dei propri ristoranti.

Il futuro delle dark kitchen sarà molto più radioso se gli imprenditori riusciranno a fare squadra ed a specializzarsi nelle varie nicchie di mercato esempio office catering, consegne a bed and breakfast e strutture alberghiere senza cucina, consegne sui lidi ai clienti in spiaggia ecc. Un altro prodotto che potrebbe essere vincente è, come più volte ripetuto anche in altri contributi, un concetto ibrido. Cioè un locale che abbia una produzione, ma anche qualche tavolo per consumare, ma anche un posto fisico da ricordare, che faccia servizio dalla cucina, visti i numeri, che serva del take-away tipo gastronomia e faccia delle consegne. Una attività che possa beneficiare dei bassi costi di gestione, ma che sappia massimizzare la visibilità e le vendite attraverso tutti i canali disponibili, e che sfrutti, comunque, la joint venture con i colossi del food delivery, per pubblicizzare e diffondere il proprio marchio. Digitale e prenotazioni, freschezza e rapidi cambi di menu, consegne veloci ed in sicurezza rappresentano la differenza tra un top ed un flop, per questo il consiglio come sempre è di non improvvisare, ma di rivolgersi a professionisti.

Elaborare il menu, gestire le app, avere i giusti fornitori, studiare il packaging, stringere accordi commerciali per le consegne, saper controllare dal punto di vista della sicurezza alimentare l’intero processo sono cose da non improvvisare che se sottovalutate possono compromettere questo tipo di operazioni.

La cucina non è morta, e in ogni caso viva la cucina! www.gestioneecontrollo.com